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KKL e l’energia alternativa

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In Israele la maggior parte dei progetti nel campo dell’energia rinnovabile sono concentrati nella Regione ELOT, nel Aravà del Sud, e molti di loro sono supportati dal KKL. Il Consiglio Regionale ELOT si estende per 220.000 ettari, comprende 12 comunità e kibbutzim e, la Regione è abitata da circa 3.500 persone. Il clima e la costante luce del sole fanno di questa, una zona ideale per lo sviluppo di fonti energetiche alternative: l’Aravà è considerata infatti la “Silicon Valley” delle energie rinnovabili. L’area ha la più alta concentrazione di centrali solari in Israele, nonché diversi laboratori che si occupano degli studi relativi alle energie alternative.

L’Aravà Power Company, azienda che sviluppa installazioni solari pioneristiche, è una delle maggiori società per energia solare in Israele. È stata la prima azienda a lanciare un campo solare a terra nel 2011, avviando 6 campi solari nel Negev e Aravà che insieme produrranno 36 MW di elettricità pulita. Il primo progetto sviluppato nel Kibbutz Ketura, situato a 45 km a nord di Eilat, in una zona desertica di 600.00 metri quadrati, prevede che il nuovo impianto solare sia in grado di generare più di 70.000 megawatt per ora di energia rinnovabile e pulita ogni anno. Un campo fotovoltaico che oggi soddisfa il 44% del fabbisogno energetico del Consiglio Regionale, dispone di 18.000 pannelli solari, oltre ai 140 ettari coltivati e una produzione agricola che vale del 40% dell’Aravà. La grande sfida futura consiste nel continuare a fornire energia anche durante la notte, attraverso impianti di pompaggio dell’acqua, che durante il giorno raggiungono picchi elevati e che vengono poi rilasciati la sera, utilizzando il loro moto per far funzionare le turbine e generare elettricità. Si stima che entro il 2020 l’energia proveniente dal sole fornirà il cento per cento del fabbisogno energetico di 60.000 residenti locali.

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Nel Kibbutz Ketura inoltre si studiano nuove forme “pulite” per la produzione di energie rinnovabili e a basso costo, capaci quindi di essere impiegate nei villaggi più isolati e poveri del Terzo Mondo, privi di qualsiasi tipo di reti, elettrica o idrica e di comunicazioni affidabili.

Nel Kibbutz infatti è stato costruito un piccolo villaggio in stile africano al fine di mostrare che cosa significa vivere senza allacciamenti, senza elettricità, acqua, fognature o qualsiasi altra forma di infrastrutture. Il villaggio non è progettato per attirare turisti o suscitare empatia, ma l’idea è invece di utilizzarlo come terreno di prova per nuove tecnologie che possono essere portate e sfruttate nei paesi più poveri e bisognosi.

Le capanne sono costruite in fango e paglia, con sacchetti di plastica contenenti fibre capaci di non far penetrare temperature eccessive, perché forniscono un ottimo isolamento. All’interno c’è una cucina elettrica, alimentata da un micro-pannello solare esterno, un impianto biogas che trasforma i rifiuti organici in energia per cucinare, per riscaldare e per illuminare, il tutto mantenendo l’ambiente pulito e sano e creando concime liquido per le colture. Tecniche per lo sviluppo della vita nel deserto: riciclare i rifiuti organici per trasformarli in gas biologici, coltivare sementi capaci di fiorire in terreni molto salini, sviluppare le erbe del deserto in materiale per la produzione di biocarburanti. Un “villaggio ecologico” che utilizza tecnologie “low-tech”, non attraverso energia elettrica convenzionale, ma forme alternative. È questa la combinazione vincente, la moderna agricoltura e l’energia rinnovabile, che porterà un impatto significativo sul miglioramento della sicurezza alimentare.

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